IL GELOSO ESTREMEGNO

 

Novella settima

 

Donato Fontana   

 

 Argomento

Filippo Carizale, prodigamente spendendo ogni suo havere, si conduce povero all’Indie. Poi, in capo a dieci anni fattosi ricco, ritorna alla patria dove, innamorato di Leonora senza dotte, la prende in moglie. Divenutone poi soverchiamente geloso, la rinchiude in una casa nella quale Loaysa, col corrompere un moro c’havea la cura della porta, entrando è cagione della morte di Carizale e del monacarsi di Leonora

 

 

   Non ha molt’anni che d’un luogo di Estremadura uscì un tale nato di nobili parenti, il quale, a guisa d’altro prodigo, per diverse parti della Spagna, della Fiandra, e dell’Italia spendendo quanto havea, venne insieme ad acquistarsi un cumulo d’anni. Questo, al fine di molte peregrinazioni, morti li suoi, e dispensato ogni cosa, venne a ripararsi nella gran città di Siviglia, nella quale ritrovò bastante occasione per ispendere quel poco che li era rimasto. Di questa maniera vedendosi privo d’amici, e senza danari, per acquistarne s’apprese a quel rimedio che altri simili nella stessa città si appigliano: che è il passarsene all’Indie, rifugio e riparo de’ disperati di Spagna, chiesa de’ falliti, salvocondotto delli homicida, pala e coperta de’ giuocatori, esca generale delle donne libere, inganno commune di molti, e rimedio particolare di pochi.

   Così, venuto il tempo che un’armata si partiva per terra ferma, accommodandosi con il generale, apparecchiò quanto li faceva di bisogno in simile viaggio, ed imbarcandosi a Cadiz, dando la benedizzione a Spagna, si fecero in alto mare, e con generale allegrezza diedero le vele al vento, che molto piacevole e prospero soffiava, dove in poco d’hora li nascose la terra, e li scoperse le larghe e spaziose pianure del grand’Oceano.

   Andava questo nostro navigante molto pensieroso, rivolgendosi nella memoria li grandi e strani pericoli che nel corso di sua vita havea passati, ed il mal governo che di se stesso sempre havea tenuto, proponendo di cangiar stile, e di meglio conservare que’ beni che Nostro Signore fosse servito darli, e di procedere più cautamente che fino all’hora fatto non haveva con le donne.

   L’armata andava in calma quando che passava in queste imaginazioni Filippo Carizale (tale dicevasi chi ha dato materia a questa novella), però fra poco mutandosi il vento, e minacciando borrasca, sforzò ciascuno pensare a’ fatti suoi, di modo che anco Carizale lasciò li suoi pensieri, ed attese a quanto li offeriva il viaggio, che fu tanto prospero, che senza ricevere danno alcuno arrivarono al porto di Cartagena. Ma non essendo questo a nostro proposito, dirò solo che quando Filippo passò all’Indie dovea havere da quarantaotto anni, ed in venti altri che colà dimorò, agiutato dalla sua industria, arrivò ad havere di proprio per più di cento cinquanta milla scudi.

   Di questa maniera vedendosi ricco e prospero, tocco da quel natural desio di ritornar alla patria, posposti molti interessi che se li offerivano, lasciando il Perù dove tanto havea guadagnato, e facendo il tutto in oro ed argento, ritornò in Ispagna. Si disimbarcò nel porto Sanlucar, e pervenne a Siviglia tanto carico d’anni, quanto agiato di ricchezze. Cavò le sue partite senza timore alcuno. Cercò gl’amici, ma ritrovò ch’erano morti. Determinò d’andarsi alla sua terra, ma intese non haver più vivo parente alcuno. Di modo che se quando andò all’Indie povero e bisognoso l’andavano combattendo molti pensieri, senza ch’egli potesse in mezzo all’acque riposarsi, così non meno in terra lo travagliavano li stessi pensieri, ancorché per differente cagione: che s’all’hora non poteva dormire per esser povero, così adesso non riposava per la soverchia ricchezza, essendo che tanto è di travaglio la ricchezza a chi non è uso haverla, quanto la povertà a chi di continuo la sente. Pensieri accresce l’oro, e pensieri il mancamento d’esso; però gl’uni si rimediano con l’arrivare ad haverne qualche quantità, e gl’altri più si accrescono con l’abbondanza.

   Considerava Carizale queste sue ricchezze, non come misero ed avaro, ma per non sapere come dispensarle, essendo che in quegli anni che fu soldato havea appreso ad esser liberale. L’haverle in beni stabili era cosa infruttuosa, tenerle in casa sarebbero state un’esca ed uno svegliatoio per i ladri.  Era in lui morta la voglia della mercanzia, parendoli che conforme a’ suoi anni li avanzavano dinari per passare la vita quieta, la quale pensò di fare nella sua terra, dando il tutto a censo, e di questo modo viversi riposato, donando a Dio quello che poteva, poiché haveva dato al mondo più di quello che dovea. Dall’altra parte considerava che la strettezza della sua patria era molta, e che l’andare lui in essa era come un porsi bersaglio a tutte l’importunità che li poveri sempre sogliono fare alli ricchi. Bramava d’havere heredi doppo li suoi giorni, e con questo desiderio prendeva lena, e destava chi per ordinario dormiva, parendoli anco d’esser atto a portare il peso del matrimonio; ed in pensando questo lo assaliva una tal paura, che come nebbia al vento li dissolvea questo pensiero di prender moglie, essendo di sua natura il più geloso huomo del mondo, benché libero, che con il solo pensare di essere legato con nodo matrimoniale, l’offendevano le gelosie, lo travagliavano i sospetti, l’amazzavano l’imaginazioni. E questo con tanta forza e vehemenza, che in tutto e per tutto propose di non prender moglie.

   Hora stando in questo proponimento, anzi tutto confuso nella determinazione, volle la sorte sua che passando un giorno per una strada alzasse gl’occhi ad una finestra, dove vide una bellissima donzella, a suo parere di tredeci in quatordeci anni, tanto bella di faccia, che non si poteva bramare di più; il buon vecchio Carizale, adunque, senza esser bastante a difendersi, rese la fiacchezza de’ suoi molti anni a’ pochi di Leonora (tale dicevasi la donzella), e subito, senza dar luogo ad altri pensieri, cominciò a far un monte di discorsi e di confusioni. Diceva fra sé:

    -Questa fanciulla è bella, e per quanto posso comprendere non deve essere molto ricca. Ella è fanciulla, sì che li suoi poc’anni ponno assicurare li miei sospetti: la prenderò per moglie, la rinchiuderò a mio modo, le farò fare le mie voglie, e di questa maniera non apprenderà altra qualità di quella che le insegnerò io. Io non sono tanto vecchio che mi faccia perdere la speranza di non haver figli che mi siano heredi. Ch’ella habbia dote, o no, non fa al caso, poiché il cielo mi ha fatto ricco, e per me e per gli altri. Né li ricchi devono cercare ne’ loro matrimoni altra dote che quella della consolazione e del gusto; perché il gusto allunga la vita, ed il disgusto fra maritati la toglie. Alta dicono essere la sorte, e questa appunto è quella che il Cielo vuole che sia mia.

   Fatto fra lui questo soliloquio, non una volta, ma cento, al capo di non so che giorni parlò a’ parenti di Leonora, e seppe che ancor che poveri, erano nobili; disseli quanto pensava di fare, rese loro conto delle sue ricchezze, ed in somma li chiese apertamente la giovane in moglie. Si informarono ambedue le parti, la conchiusione di che fu, che Leonora rimase sposa di Carizale, facendole esso subito contradote di venti milla ducati, tanto si era di lei in un subito acceso. Appena diede il sì di esserle marito, che in un subito lo investirono una quantità di gelosi pensieri, di modo che senza causa alcuna cominciò a tremare ed havere le maggiori paure del mondo. Il primo segnale ch’egli diede della sua gelosa condizione fu che nissun sarto volle prendesse la misura delle molte vesti ch’egli havea pensato di fare alla sua sposa; e così andò un pezzo considerando qual altra donna fosse di corpo e misura simile alla sua; alla fine, ritrovata una poveretta, le fece fare una veste, che provatala a Leonora, vedendo che le stava bene, di quella misura fece fare gli altri vestiti, che furno tali e tanti, che li genitori della sposa si stimavano aventurati in haver genero di tal qualità per sostentamento loro e della loro figliuola.

   La fanciulla rimaneva maravigliata in veder tanti belli vestiti, a causa che quelli che in sua vita posti si havea non passavano di una sottana di rascietta e di una veste di tafetà. Il secondo segnale che diede Filippo fu il non voler congiungersi con la sua sposa fino che non hebbe messa una casa a parte, la quale pose all’ordine in questa maniera: una ne comprò per dodeci milla ducati, in una strada principale della città che havea fontane e giardini bellissimi; serrò tutte le finestre che guardavano in istrada, e le diede la luce dall’alto; lo stesso fece di quelle di casa. Nella porta in istrada, che in Siviglia dicono casaporta, fece fare una stalla per una mula, e sopra quella una camera dove riposava quello che della porta havea la cura, che fu un moro vecchio ed eunuco; innalzò le mura delle bertresche, di modo che chi entrava in casa havea da risguardare il cielo per linea retta, senza che potesse vedere altra cosa. 

  Comprò un ricco mobile di maniera che per le tapezzerie, sedie, e baldachini, pareva esser questa casa di un gran signore; fece compra ancora di quattro schiave bianche, e le signò nel volto con due altre more rustiche. Accordossi con un dispensiero che li comprasse e portasse il mangiare, con patto che non dormisse in casa, né che mai vi entrasse, arrivando solo al torno, nel quale metteva quello che comperato havea. Fatto questo, diede parte del suo havere a censo in diversi luoghi, altra parte ne pose in banco, servandone a’ bisogni anco in abbondanza. Fece fare una chiave maestra, che serviva per tutta la casa, serrando in una parte tutto quello che si comprava per provigione di tutto l’anno. Havendo, adunque, il tutto composto e messo all’ordine, andò alla casa delli soceri, e li chiese la sposa, la quale li consignarono non senza lagrime, parendo loro che invece di mandarla a nozze, la mandavano alla sepoltura.

   La tenera Leonora, né anco sapeva quanto accader le dovesse, e così, piangendo, chiese la benedizzione al padre ed alla madre; poi da loro speditasi, circondata dalle sue schiave, havendola il vecchio per mano, la condusse a casa, nell’entrar della quale fece Carizale un sermone alle donzelle, raccommandandole sopra ogni cosa la guardia di Leonora, né che in nissuna maniera lasciassero dentro la seconda porta entrare persona vivente, né anco lo stesso eunuco; ed a chi più raccommandasse questo fu ad una donna di molta prudenza e gravità, che havea tolto come che per governatrice di lei, e perché fosse sopraintendente di quanto facevasi nella casa, e per commandare alle schiave ed ad altre due donzelle della medesima età di Leonora, che in casa havea tolte, affine ch’ella havesse compagnia conforme con che trattenersi. Promise il vecchio che le tratterebbe e regalarebbe bene, di modo che non l’increscerebbe lo starsi di quella maniera serrate, e che tutte le feste anderebbero fuori a sentir messa, però tanto a buon’hora, ch’appena la luce havrebbe luogo di vederle.  Promisero le schiave e le donzelle di far ogni cosa senza pensare ad altro, con buona volontà, e miglior animo. La buona sposa stringendosi negl’homeri, ed inchinando la testa, disse ch’ella non bramava altro che di servire ed obedire suo marito, al quale sempre sarebbe stata obediente. Fatto questo apparecchio e prevenzione, il buon vecchio ritiratosi nella sua casa, cominciò a gustare li frutti del matrimonio in quel miglior modo che per lui fu possibile: non parendo a Leonora (come che non ne era prattica) che fossero né di gusto, né di disgusto, passando il tempo con la sua donna, con le donzelle e schiave, le quali, per passarlo meglio, si diedero ad esser golose, passando pochi giorni che non facessero mille lecardarie per incitare l’appetito; non mancando loro occasione per farle, poiché al vecchio, parendo che non pensarebbono in altro, mentre haveano da saziarsi l’ingorda voglia nel mangiare, cercava di fare che la casa fosse del tutto abbondante. Leonora faceva lo stesso che facevano le serve, andando tanto innanzi nella sua simplicità, che si poneva a far bambocci, ed altre simili fanciullezze, che ben dimostravano la libera sua condizione e la tenerezza de’ suoi anni: le quali cose tutte erano di grandissimo contento al geloso vecchio, parendoli d’haver dato in segno, per menar una vita la più gustosa del mondo, e che né la industria, né la malizia humana potevano perturbargliela. Altro non faceva che far regali alla moglie, raccordandole li chiedesse quanto le veniva in pensiero, che del tutto l’havrebbe sodisfatta.

   Li giorni che andava a messa (che, come habbiamo detto, era tanto a buon’hora che non potevasi vedere), venivano suo padre e sua madre nella chiesa, dove parlavano alla figlia alla presenza del marito; il quale faceva a’ suoi soceri tanto bene, che la compassione che haveano alla figlia per vederla di quella maniera serrata andavano temprando con l’abbondanza de’ doni che il genero liberale loro faceva. Levavasi la mattina per tempo a vedere se il dispensiero veniva, il quale per un biglietto scritto che ponevano nel torno la notte, era avisato di che comprar doveva il seguente giorno; ed in venendo il dispensiero usciva di casa Carizale il più delle volte a piedi, serrando ambedue le porte, quella di dentro, e quella in istrada, rimanendo fra le due il moro portiero. Andava per suoi negozi, ch’erano pochi, e con brevità ritornava a casa, nella quale serratosi, attendeva a regalare la sposa e le sue serve, che le volevano gran bene, per esser lui affabile e discreto, e sopra tutto liberale. Di questa maniera passarono un anno del noviziato in quella vita, nella quale fecero pensiero di seguitare fino alla morte, e così sarebbe stato, se il sagace perturbatore del genere humano ciò non le havesse vietato, come più avanti udirete.

   Dicami adesso un savio e prudente, qual maggior cura, qual maggior ricapito alle sue cose poteva dar persona alcuna di quello che fece il vecchio Filippo, il quale né anco volse che in sua casa abitasse animale che maschio fosse? Li sorci di quella giamai furono perseguitati da gatto, ned in essa mai si sentì latrato di cane: ogni cosa era del genere feminino. Di giorno pensava, di notte non dormiva, egli medesimo era la ronda, la sentinella della sua casa, e l’Argo dell’amata sua giuvenca. Giamai entrò huomo di sorte alcuna nella sua corte, facendo tutti li suoi negozi in istrada. Le figure delle tappezzarie che adornavano le sale e le camere, erano tutte femine, fiori, e piante.  Tutta la sua casa spirava odore di honestà, modestia, e ritiratezza; fino nelle stesse frottole, o favole, che nelle lunghissime notti dell’inverno contavano le sue serve sotto il cammino al fuoco, d’altro non si parlava che di essempi de’ santi e cose simili. L’argento della canizie del vecchio pareva alla moglie oro finissimo, essendo che il primo amore nelle donzelle se le imprime nell’anima, in quella guisa che fa il sigillo nella cera. La soverchia cura di lui pareva a lei avvertimento considerato: in somma, pensava e teneva che quanto ella passava, passassero ancora tutte le maritate di nuovo. Non si arrischiavano li suoi pensieri a pensare di partirsi fuori delle mura della casa, né la volontà di lei bramava altro di quello che bramava suo marito. Solo li giorni ch’ella andava a messa vedeva le strade, però nel ritornar della chiesa, essendo troppo per tempo l’andarvi. Non si vidde monastiero tanto riserrato, né monaca tanto ritirata, né le stesse poma d’oro delle Hesperidi tanto custodite, quant’era Leonora; e pure non puotè schifare di non cadere in quello che sospettava e che tanto temeva.

   Vive in Siviglia una sorte di gente oziosa, e vagabonda, che communemente suole chiamarsi gente di piazza: questi sono li figli de’ più ricchi della città, gente scioperata, inconsiderata, e precipitosa, della quale li termini, la maniera di vivere, le leggi che guardano fra loro, per buoni rispetti si tacciono. Uno adunque di questi tali, giovane libero e dissoluto, s’abbatté a guardar la casa del vecchio Carizale, la quale ritrovando sempre serrata, li venne voglia di sapere chi dentro vi habitava, e con tanta instanza e curiosità fece la diligenza, che a poco a poco venne a sapere ogni cosa: sì della condizione del vecchio, come della bellezza della sua sposa, per lo che se li accese il desio di vedere se possibile fosse espugnare, o per forza o per industria, fortezza tanto guardata. Fece commune questo pensiero a tre altri giovani suoi compagni, li quali lo consigliarono a mettere in opera questo suo pensiero, non mancando mai nelle tristizie chi ci consiglia e chi ci dia aiuto.

   Facevano difficile il modo di entrare in così difficultosa facenda, e doppo di haver fatto consiglio e congregazione molte volte, finalmente si convennero in questo: che fingendo Loaysa (così era il nome dello sfacendato) di andare fuori della città per alcuni giorni, si togliesse dalla vista de’ suoi amici e famigliari. Questo fatto, si pose certi calzoni di tela bianca, ed una camicia medesimamente bianca, però di sopra un vestito tanto rotto e tacconato, che nissun povero nella città lo havea simile. Levossi un poco di barba c’havea, e con un cerotto si coperse un occhio; si legò poi una gamba, ed appoggiatosi a due gruccie, si convertì in un povero storpiato, e tale che non havea fra’ pitocchi chi lo uguagliasse. Di questa maniera ponevasi ogni notte alla porta di Carizale, ch’era serrata, dov’il moro (che Luigi si chiamava) ritenuto fra le due porte si stava. Cavava poi fuori una ghitarina, tutta onta, alla quale mancavano molte corde; e come ch’egli era alquanto musico, cominciava a toccare alcune sonate allegre e festose, mutando la voce per non esser conosciuto. Davasi a cantare certe canzoni alla moresca, con arie di mori, ed il tutto con tanta grazia, che quanti passavano per la strada si fermavano a sentirlo, essendo sempre circondato mentre durava il canto da una moltitudine di fanciulli. Luigi, il moro, ponendo l’orecchio alli gangheri della porta, rimaneva fuori di se stesso alla musica, e volontieri havrebbe dato un braccio a poter aprir la porta ed ascoltarla a suo modo (tale è l’inclinazione che i mori hanno alla musica). Quando Loaysa voleva che quelli che l’ascoltavano lo lasciassero, governava la sua ghitarra, ed appoggiatosi alle sue gruccie, si andava.

   Quattro, o cinque notti era andato a cantare al moro (che per lui facevasi la festa), e considerando in qual maniera poteva dar principio a rompere quella fortezza, pensò non esservi mezzo più facile del moro; né li riuscì vano il suo pensiero, perché venendo egli una notte, come soleva, alla porta, cominciò ad accordare la ghitarra, e sentendo il moro di già esser attento, si fece alla porta, e con voce bassa li disse:

 - Sarà possibile, Luigi, -di già sapeva il suo nome-, darmi un poco d’acqua, ch’io mi muoio di sete, né posso cantare?

 - No (rispose il moro), non havendo io la chiave della porta, ned essendovi buco o pertugio per potervela dare.

 - E chi tiene la chiave? -disse Loaysa.

 - Il mio padrone (rispose il moro), che è il più geloso huomo del mondo; e se egli sapesse ch’io adesso fossi dove sono, trista la vita mia! Ma chi sete voi che mi chiedete l’acqua?

 - Io sono (rispose Loaysa) un povero stropiato di una gamba, che mi vò guadagnando il pane, chiedendo elemosina, ed insegnando a suonare ad alcuni mori, ed ad altra gente povera, e di già ho insegnato a tre mori schiavi, di modo che ben ponno suonare e cantare qualunque ballo in qualsivoglia hosteria; e me l’hanno pagato molto bene.

- Molto più vi pagherei io, se havessi luogo di poter prender le lezzioni; però non è possibile questo, perché il mio padrone, uscendo di casa, serra la porta, portando seco la chiave, e ritornando fa lo stesso, di modo che sempre io mi ritrovo murato fra le due porte.

 - Affé, Luigi (replicò Loaysa), se voi mi daste luogo di poter entrar a darvi lezzione, che io in meno di quindici giorni mi do il vanto che vi farei di maniera riuscire, che potreste alle occorrenze cantare e suonare senza vergogna, perché io ho una grandissima e particolar grazia nell’insegnare; e tanto più havendo inteso dire che voi havete una grandissima abilità alla musica; e per quanto sento all’organo della voce, e posso giudicare, havete la gorgia soave, e dovete cantar molto bene.

 -  Non canto male (rispose il moro), ma che mi giova se non so fare una minima sonata, né cantare altra canzone che quella della “Stella di Venere”, e quella “Per un verde prato”, con quella moderna ch’adesso si usa che dice “Ai ferri d’una finestra, la turbata man congiunta”.

  - Queste tutte (soggiunse Loaysa) hanno aria accommodata per quello che vi potrei insegnar io, perché so tutte le canzoni del moro Abindaraez, e della sua dama Xarifa, con quelle che si cantano del gran Soffi, e la zarabanda, che sono tali che fanno rimanere stupidi gli stessi portughesi; e queste insegno io con tanta facilità, che abenché non habbiate voi molta fretta nell’imparare, appena havrete mangiato tre o quattro moggia di sale, che vi vedrete perfettissimo in ogni genere di ghitarra.

   A questo sospirò il moro, e disse:

 - Ogni cosa sarebbe bene, ma che giova se non so come mettervi in casa?

 - Facilmente potrete farlo (disse Loaysa). Procurate voi di prendere le chiavi al vostro padrone, che io vi darò un pezzo di cera, nella quale le imprimerete, che io poi le farò fare da uno di questi acconcia serrature, mio amico, e così potrete aprirmi, che entrando io dentro, v’insegnerò meglio che al Pretegianni dell’Indie, perché veggio essere una grandissima compassione che si perda una tal voce come la vostra, senza l’aiuto ed appoggio della ghitarra. Perché dovete sapere, amico Luigi, che la miglior voce del mondo perde di sua bontà, se non viene accompagnata dal suono, sia poi di ghitarra, di clavicembalo, d’organo, o d’arpa, che questo non importa punto. Ben è vero che quello che più si conviene alla vostra voce, è lo stromento della ghitarra, per esser il più maneggiabile ed usato, come che anco egli è di poca spesa, rispetto a tutti gl’altri.

  - Parmi bene questo (replicò il moro), ma però io mai  saprei come fare, perché le chiavi non vengono giamai in mio potere, né il padrone se le lascia andare dalle mani: di giorno e di notte sempre dormono seco sotto il suo guanciale.

  - Adunque fate un’altra cosa (disse Loaysa), se pure havete voglia di riuscire musico perfetto e consumato, che se fosse altrimente, non occorrebbe che io mi affaticassi in insegnarvi.

  - Come s’io n’ho voglia? (soggiunse Luigi). N’ho tanta e tale che non lascierei di fare ogni cosa possibile, purché io potessi farmi musico.

  - Se così è (disse Loaysa), io vi darò un martello ed una tenaglia (facendo però voi luogo col levare vicino all’uno de’ gangheri un poco di terra) con che potrete di notte levare li chiodi della serratura maestra con molta facilità; e nello stesso modo anco potremo ritornare a metterla al suo luogo senza che mai egli possa accorgersene, dove, entrato che io sarò, starò rinchiuso nella vostra camera, e mi darò tanta fretta nell’insegnarvi, che vedrete molto più di quello che ho detto con utile di me, ed augumento della sufficienza vostra. Circa poi il mangiare, non vi prendete cura, che io porterò provigione per tutti due e per molti giorni, havendo io tali discepoli che non mi lascieranno mancare.

  - Del mangiare (rispose il moro) non è da dubitare che con la razione che mi dà il padrone, e con l’avanzo delle schiave, n’havremo per altri due. Fate pure venire questo martello e tenaglia, né vi dubitate che io farò luogo donde possano entrare vicino a questo ganghero, e lo tornerò a turare con creta; e circa l’aprire la porta, benché li dia molti colpi, il padrone dorme lontano da questo luogo, che se ci sentisse sarebbe solo disgrazia nostra, e non altro.

  - Sia come si voglia (disse Loaysa). Da qui a due giorni havrete quanto bisogna per mettere ad effetto questo virtuoso proposito, ed avvertite in questo mentre a non mangiare cose flemmose, che fanno grandissimo danno alla voce.

  - Nessuna cosa mi fa più rauco del vino (rispose il moro), però io non me ne voglio distorre per quante voci sono al mondo.

  - Questo non dic’io (replicò Loaysa), né Iddio lo permetta! Bevete pure, e bon pro vi faccia, che il vino che si beve con misura giamai è causa di danno alcuno.

  - Con misura io lo bevo (disse il moro). Io ho qui dentro un boccale da una misura giusta e perfetta; questo mi portano le schiave, senza che il padrone lo sappia, ed il dispensiero, anch’egli di nascosto, mi porta un fiasco che anch’esso tiene due misure giuste, con le quali io supplisco al mancamento del boccale.

  - Dico (disse Loaysa) c’havete molto ragione di bevere, perché la secca lingua non fa suon che si distingua.

  - Horsù andate con Dio (disse il moro), ma non tralasciate di venire a cantare queste notti che tardarete in portare le cose che havete detto, perché mi brillano le dita di esser sopra la ghitarra.

  - Come se io verrò (replicò Loaysa), senz’altro! Ed anco con sonate nuove!

  - Questo bram’io (soggiunse il moro). Ma, per vita vostra, cantate qualche cosa prima di partirvi, acciò vada a riposarmi con gusto. Circa la paga poi, deve sapere il signor virtuoso storpiato, che sarà meglio di quella di un ricco.

  - Non risguardo a questo (disse Loaysa), che secondo ch’io v’insegnerò, mi pagherete. Ma sentite per adesso questa sonatella, che quando poi sarò dentro, vedrete miracoli.

  - Sia in buon’hora (replicò il moro).

Così, finito questo lungo colloquio, cantò Loaysa una villanella molto acuta, con la quale lasciò il moro tanto contento e sodisfatto, che non vedeva l’hora d’aprir la porta.

   Ed appena si levò per andare a dormire, quando che Loaysa, con la maggior prestezza del mondo, andò a raccontare a’ suoi compagni il felice principio, con la speme di più felicissimo fine. Il giorno seguente ritrovarono li stromenti, che furono perfettissimi. Non smenticossi Loaysa d’andar a cantare al moro, né’l moro si smenticò di fare il pertuggio nel muro, turandolo di maniera che nissuno che non l’havesse saputo se lo sarebbe potuto imaginare, non che comprendere.

   La seconda notte portò li stromenti Loaysa, che furno ricevuti dal moro; e subito ponendoli in opera, senza nissuna difficoltà ruppe li chiodi, e si ritrovò con la serratura nelle mani, dando luogo che entrasse il suo novello Orfeo: che quando lo vidde di quella maniera storpiato, rotto, e con la gamba bendata, rimase tutto meravigliato. Non haveva già il cerotto sopra l’occhio per non esserli di bisogno. Abbracciò Loaysa subito il suo discepolo, ponendoli in mano un fiasco di vino ed una scatola di conserva, con altre cose dolci che in una bisaccia ben proveduta havea. Lasciando poi le gruccie, come che non havesse male alcuno, incominciò a far capriole e salti, della qual cosa il moro restò meravigliato, ma Loaysa li disse:

   - Sappi fratello Luigi, che la mia zoppatura e stroppiamento non nasce da infirmità, ma sì bene da industria, perché chiedendo elemosina mi guadagno il vitto, ed agiutandomi della musica passo la miglior vita del mondo; per lo contrario morendo di fame quelli che non si sanno ingegnare, come più avanti nel discorso della nostra amistà intenderai.

  - Ci sarà tempo (rispose il moro), ma accommodiamo noi adesso questa serratura al suo luogo, di maniera che non si scorga la sua rimozione.

   Loaysa, all’hora, cavati fuori dalla bisaccia alcuni chiodi, l’accominciarono in guisa che il moro ne fu contento, ed entrati nella camera, accese un pezzo di candela di cera, e Loaysa cavò fuori la sua ghitarra, la quale cominciò a toccare con tanta soavità che il moro rimase suspeso, di maniera che come insensato lo stava ascoltando. D’indi a poco cavò pure dalla bisaccia altra robba mangiativa, e li diede a bere, con tanto gusto di Luigi che lo lasciò fuori di se stesso. Ordinò, poi, Loaysa che egli prendesse la lezzione; ma il misero, che haveva quattro dita di vino sopra il cervello, mai poteva toccar li tasti, e pure Loaysa li faceva credere che sapeva due sonate, ed egli lo teneva per fermo, né in tutta notte altro fece che toccare la ghitarra tutta scordata e manca delle corde necessarie.

   Dormirono quel poco che della notte li avanzava, e venuta la mattina, venne a basso Carizale, aperse la porta di mezzo, e quella della strada, aspettando il dispensiero, il quale d’indi a poco venne; e mettendo la robba comprata nel torno subito si andò per li fatti suoi. Chiamò il vecchio il moro che venisse a prendere la sua razione, e quella della mula, ch’era la biada; il che fatto, si andò serrando ambedue le porte, senza punto accorgersi della rottura fatta, rimanendo di questo molto allegri li due, maestro e discepolo; il quale, appena sentì che il vecchio si era andato, che, prendendo la ghitarra nelle mani, cominciò di maniera a toccare le corde che le schiave tutte lo sentirono, e fattesi al torno dissero:

  - Che è questo, Luigi? Da quando in qua hai tu ghitarra, o chi te l’ha datta?

  - Chi me l’ha datta? (rispose il moro). Il miglior musico del mondo: quello che in manco di sei giorni mi ha da insegnare più di sei milla sonate.

  - E dove è questo musico? (richiese la governatrice).

  - Non molto lontano di qui (rispose il moro), e se non fosse per vergogna, e per il timore  che ho del padrone, ve lo insegnerei, ed affé che molto gustereste di vederlo.

  - Ed in che luogo vuoi tu ch’egli sia che noi lo potiamo vedere -replicò la governatrice-, se in questa casa mai è entrato huomo di sorte alcuna, fuorché il nostro padrone?

  - Hora bene (disse Luigi), io non voglio dirvi cosa alcuna finché non sentite quello ch’io so, e che mi ha insegnato in così breve tempo.

  - Affé (disse la governatrice), che se non è alcun demonio che ti ha da far musico, io non so come possa esser questo che mi dici.

  - Andate (disse il moro), che lo vedrete e sentirete una volta.

  - Non habbiamo (soggiunse un’altra donzella) finestre in istrada, per le quali possiamo vedere quello che tu dici.

  - E bene (rispose Luigi), al tutto si ha rimedio fuor che alla morte; e tanto più se voi vorrete e saprete tacere.

  - E come se taceremo, fratel Luigi? (disse una delle schiave). Taceremo come che fossimo mute, morendo io e quest’altre di sentire una buona voce, poiché dall’hora che ci murarono in questa casa, non habbiamo né anco sentita quella de’ passari.

   Tutte queste prattiche sentiva Loaysa con molto suo contento, parendoli che le cose si andassero incaminando conforme al suo gusto, e che la buona sorte volesse con questo mezzo condurlo al fine de’ suoi desideri. Si dispedirno le donne, promettendole il moro che, quando meno il pensassero, le chiamerebbe a sentire una molto buona e delicata voce, e con il timore che haveva, se ritornando il padrone l’havesse trovato a parlare con le schiave, andò subito alla sua stanza, serrandovisi dentro molto bene. Havrebbe voluto prender lezzione, ma non ardì farlo di giorno, dubitando che il vecchio non lo sentisse, il quale fra poco venne, e serrando la porta (com’era suo costume), si rinchiuse in casa. Venne una schiava al torno a portar da mangiare al moro, alla quale disse che la seguente notte, quando il padrone fosse andato a dormire, venissero tutte a basso, che loro voleva far sentire la voce che le havea promesso senza fallo alcuno. È ben vero che, prima che dicesse questo alla schiava, havea molto pregato il suo maestro che fosse contento di farlo, acciò potesse attendere alla parola che alle donne havea data, assicurandolo che sarebbe stato in estremo regalato da esse. Fecesi pregare un pezzo Loaysa, pure alla fine disse che si accontentava di fare quanto chiedeva il suo discepolo, solo per darli gusto, e senz’altro interesse. Abbracciollo il negro, e lo baciò in segno del contento che li havea causato la promessa grazia; e quel giorno li diede da mangiare tanto bene, come se fosse stato in sua casa propria, e forsi meglio.

   Venne la notte, e così, circa la mezza, sentì cecare al torno; per lo che subito Luigi intese esser questa la barca delle femine ch’era venuta al porto, e chiamando il suo maestro, vennero ambidue a basso con la ghitarra benissimo accordata. Richiese Luigi quante erano quelle ch’ascoltavano, ed esse risposero che tutte, eccetto la signora, che dormiva con suo marito, del che molto rincrebbe a Loaysa, però con questo volle dar gusto al suo discepolo, e dar principio al suo disegno. Così cominciò a toccar la ghitarra con tanta dolcezza, che ed il moro e le femine furno per uscir di senno. Ma che dirò di quanto venne a fare il ritornello? E finire con l’indemoniato suono della zarabanda nuovo all’hora in Ispagna? Non restò vecchia che non le ballasse il cuore nel petto, né giovane che di sé non facesse diminutivi, ed il tutto alla sorda, e con istravagante silenzio, havendo poste molte sentinelle e guardie, affine che fossero avvertite se a caso il vecchio si destasse. Cantò poi Loaysa non so che canzonette amorose, con le quali finì di porre il sigillo al gusto delle ascoltatrici, le quali con molta instanza richiesero il moro che le dicesse chi fosse questo così eccellente musico. E lui rispose loro che era un povero mendicante, il più garbato ed honorato che fosse in tutta la poveraglia di Siviglia. Pregaronlo a far di maniera che lo vedessero, né che lo lasciasse andare per quindici giorni, che lo havrebbero regalato molto bene, e le darebbero quanto havesse bisogno; li chiesero di più in qual maniera l’havea introdotto in casa, al che non rispose cosa alcuna: solo disse che per vederlo potevano fare un picciol buco nel torno, che poi havrebbero turato con cera, e che per tenerlo in casa havrebbe fatto ogni potere perch’egli vi rimanesse.

   Parlò anco Loaysa alle donne, offerendosi a loro servigi con tali ragioni, che ben vennero esse in cognizione ch’uscivano da altro che da povero mendicante. Lo pregarono di più ch’egli volesse un’altra notte nel medesimo luogo cantare, perché volevano ad ogni modo lo sentisse la padrona loro, al dispetto del leggiero sonno del marito, il quale da altro non procedeva che dalle molte gelosie che della signora haveva. Disse loro Loaysa che, se a sorte bramavano d’ascoltare la musica senza sospetto del loro signore, egli havrebbe proveduto loro d’una polvere che bevuta nel vino l’havrebbe fatto dormire più dell’ordinario.

  - Iddio mi agiuti (disse una delle donzelle). Se questo è vero, qual buona ventura ci è entrata per la porta, senza essere da noi veduta o sentita, e quello ch’importa, senza che noi la meritiamo! Questa polvere non sarà per il sonno di lui, ma sì bene per la vita di noi altre, e della signora Leonora nostra padrona, che mai può vivere lontana da lui, o che non sia sotto la sua vista. Signor mio, per vita vostra, portate questa polvere, che il Signore lo faccia contento di quanto desia. Andate, signore, né perderete il tempo, ch’io m’offero d’esser quella che gliela misturi con il vino, e piacesse al Cielo ch’il vecchio dormisse tre giorni e tre notti, che tante sarebbero di gloria a noi altre.

  - La portarò senz’altro (rispose Loaysa), ed è tale che induce l’huomo a sonno gravissimo, e soverchio.

   Lo pregarono tutte che la portasse presto, rimanendo in concerto di fare nel torno un pertugio con un trivello grande, e di condurre la signora a basso anch’essa a sentire. Di questo modo si dispedirono, volendo il moro, benché fosse l’alba, prendere lezzione, e Loaysa gliela diede, facendoli credere ch’egli havea il migliore ingegno che fino all’hora havesse in altri scorto, e che più profitto faceva di ciascun’ altro scolare, non sapendo egli all’hora (come né anco mai lo seppe) porre le dita a giustezza su la ghitarra, né toccare le corde con grazia.

   Venivano gl’amici di Loaysa alla porta in istrada, per vedere se li bisognava alcuna cosa; così la seguente notte vennero, e facendo l’usato segno fra loro concertato, si fece al pertugio del ganghero, e loro diede conto di quanto fin all’hora havea fatto, e li pregò portarli alcuna cosa, che provocasse il sonno. Promisero essi di farlo, dicendo d’haver un amico medico, c’havrebbe per essi fatto miracoli, e di ritornare la sera seguente.

   Venne la notte e le donne si fecero al torno, havendo con loro la semplice Leonora, tutta tremante e timorosa che suo marito non si destasse, la quale in nissuna maniera a questo havrebbe acconsentito, ma tante furno le persuasioni della governatrice, essaltando il musico (benché da lei non veduto) sopra Orfeo ed Absalone, che la misera signora, convinta dalle preghiere, si lasciò condurre al torno contro ogni sua volontà.

   La prima cosa che fecero fu di forare il torno per vedere il musico, il quale non più in habito di povero, ma con calzoni di tafetà leonato, larghi alla marineresca, un giubbone dello stesso, con nastri d’oro, un berettino pur leonato, di raso, con un collare inamidato, tutto lavorato d’aguggia, venendo del tutto benissimo provisto nella bisaccia, imaginadosi che se li rappresenterebbe occasione d’adoperarli. Era giovine di bella disposizione e di gentil maniera, sì che non è da maravigliarsi se [a] le donne, che tanto tempo haveano veduto il vecchio, risguardando hora Loaysa le parve di vedere un angelo. Ponevansi al buco, l’una dietro l’altra, accioché tutte potessero ugualmente vederlo, anzi il moro, per maggiormente accontentarle, li andava passeggiando attorno con la candela accesa in mano. Doppo che tutte l’hebbero veduto, fino le stesse schiave more, prese in mano la ghitarra, e cominciò a suonare ed a cantare tanto eccellentemente, che rimasero tanto la vecchia quanto le fanciulle attonite e sospese, pregando Luigi a far di modo ch’entrasse, acciò potessero meglio mirarlo ed ascoltarlo, non di mira come facevano al pertugio, e senza il timore che, essendo lontane dal loro signore, potessero esser colte all’improviso, e con il furto nelle mani. A questo si oppose la signora con buone ed efficaci ragioni, non acconsentendo per nissun modo ch’egli entrasse, dicendo che a loro beneplacito potevano di quella maniera ascoltarlo, senza pregiudizio del suo honore.

  - Che honore? (disse la governatrice). Rimanete pure voi, signora, serrata con il vostro Matusalemme, e lasciate gustare a noi come potiamo, tanto più che questo signore ci pare molto honorato, né ricercherà da noi altro che quello che li vorremo concedere.

  - Io, signore mie (disse all’hora Loaysa), per altro non venni in questo luogo che con intenzione di servire lor tutte con l’anima e con la vita, compassionando molto alla loro stretta clausura, e del tempo che in questa strettezza si perde. Huomo son io, per vita di mio padre tanto schietto, tanto humile, di così buona condizione ed obediente, che non farò più di quello che mi sarà commandato; e se alcuna di voi, signore, mi dirà: “Maestro, assentatevi qui, passeggiate lì, fatevi in qua, tiratevi in là”, io lo farò, come il più domestico ed ammaestrato cane che faccia salti per amor del re di Francia.

  - Se questo ha da essere di questa maniera (disse la semplice Leonora), qual strada si terrà, perché entri dentro il signor maestro?

  - Buonissima (rispose Loaysa). Fate, signora, opera d’improntare in cera la chiave di questa porta, che io la notte seguente ne farò fare una simile che ci potrà servire.

  - Sta bene (disse Leonora), però prima havete a giurare che, entrato dove noi siamo, non havrete da fare altra cosa che suonare e cantare, quando ve lo commandaremo, e che habbiate a stare serrato e nascosto dove vi poneremo.

  - Io giuro (disse Loaysa).

  - Non vale questo giuramento (soggiunse Leonora), perché havete da giurare per vita di vostro padre, per la più cara cosa c’habbiate.

  - Per vita di mio padre io giuro (seguì Loaysa), e per quella cosa che più amo, e che tanto desio d’havere e possedere.

  - Questo fatto, -disseli un’altra donzella-, non vi smenticate, signore, le polveri, che sono l’alfa ed omega del tutto.

   E con questo si finì la prattica di quella notte, rimanendo l’una parte e l’altra contenta del concertato. La buona sorte di Loaysa, ch’andava seguendo di bene in meglio, volle che li suoi compagni venissero la stessa notte, d’indi a poco che si fu spedito dalle donne; e facendo lo stesso segno, ch’era sonare un scacciapensieri, venne alla porta al luogo solito, e li diede conto di quanto passava; ed essi dissero che la seguente notte havrebbero portate le polveri, overo un unguento di tanta forza, che faceva addormentare ungendo con quello li polsi e le tempie: “né potrassi quello destare se con aceto non li lavano l’unto”, e che apparecchiasse l’impronto[1] della cera, che il tutto havrebbero provisto insieme.

   Con questo si andarono, riposandosi Loaysa con il moro fino alla mattina, che poi, dando lezzione al discepolo, sotto voce stette, aspettando con gran desio la seguente notte, per vedere se li attendevano alla promessa della chiave. Ed essendo che il tempo sempre pare pigro e lento a chi aspetta, così parve a Loaysa quel giorno lungo assai più dell’ordinario.

   Alla fine venne la notte, e quando fu l’hora opportuna, e picciole e grandi e bianche e nere tutte si fecero al torno, però senza Leonora, dicendo che in letto con il suo vecchio si stava, il quale havea serrata la camera di dentro, e postosi la chiave sotto il guanciale; però ch’aspettava ch’egli si fosse addormentato per improntare la chiave maestra in cera molle, che di già havea preparata, e che d’indi a poco doveano andar esse a chiamarla al buco della gattaiola.

   Maravigliato rimase Loaysa del molto risguardo del vecchio, però non per questo li venne manco il desio; e stando in questo sentì li compagni, andò al posto solito, dove li diedero un vasetto d’unguento della proprietà che li haveano detto, ed esso accettandolo, disse che aspettassero, che fra poco loro havrebbe dato l’impronto della chiave. Così, andato al torno, diede il vaso alla governatrice (ch’era quella che con maggior instanza bramava la sua entrata) e le disse che lo portasse alla signora Leonora, e che procurasse di unger le tempie e li polsi al vecchio, che havrebbe veduto miracoli. Così fece la donna, ed andando alla camera, ritrovò Leonora stesa in terra, aspettando che venisse alcuna ad avisarla; così la governatrice, facendo lo stesso, si pose con la bocca alla gattaiola, e pian piano le diede l’unguento, insegnandole il modo d’adoperarlo. Leonora all’hora le rispose che, circa la chiave, non sapeva come torla al vecchio, poiché non più sotto il guanciale l’havea posta, ma fra li materassi del letto sotto il suo corpo, e che se l’unguento del musico havea tanta forza come diceva, non occorreva improntarla altrimente, poiché havrebbero potuto levargliela ogni volta c’havessero voluto, ma che però andasse a ragguagliarlo d’ogni cosa, e ritornasse a vedere l’opera dell’unguento che fra questo mentre pensava d’adoperare. Andò la donna e disse quanto occorreva al maestro, e così Loaysa spedì li compagni che lo stavano aspettando per la chiave.

   Tutta tremante, passo passo, e quasi senza respirare, si arrischiò Leonora a ungere il vecchio, il quale, tutto dimenandosi, le fé credere che si fosse destato; per lo che fu tanta la paura, che restò quasi morta. Alla fine, facendo animo, finì di ungerlo tutto in quel miglior modo che fu possibile, che fu uno stesso che imbalsamarlo per la sepoltura. Poco stette l’unguento a dar segno del suo valore, perché il vecchio cominciò a sonnacchiare di maniera che si sarebbe potuto sentire fino in istrada, musica più accordata all’orecchie della sua sposa di quella del musico maestro del moro. Ma né anco ben sicura di quanto vedeva, cominciò a tentarlo un poco da una parte, poi dall’altra, e finalmente arrischiossi di volgerlo da un lato all’altro, ma né pur egli si destò. Si fece alla porta, alla solita gattaiola, dove ritrovò la governatrice, e con voce non tanto bassa come la prima volta, le disse:

 - Dammi la mancia sorella, che Carizale dorme come se fosse un morto.

 - E perché non prendete la chiave, signora? Che state aspettando?

 - Adesso io vò per lei (disse Leonora).

Così, fattasi al letto, pose le mani per li materassi, e la levò fuori senza che punto fosse dal vecchio sentita; dando salti per contentezza, e senza più aspettare, aperse la porta, e la presentò alla donna che la ricevé con la maggior allegrezza del mondo, comandandole ch’aprisse [a]l musico, e lo conducesse sopra alle loggie, perché ella non voleva in nissuna maniera partirsi di dove era, per quello che fosse potuto accadere, ma che prima li facesse ratificare il giuramento, e che se egli non lo facesse di nuovo, non l’aprisse in nissuna maniera.

  - Così farò (rispose la donna), ed affé che non entrerà se prima non giura e spergiura più di sei volte.

  - Non li mettete tassa a questo (disse Leonora), basta ch’egli giura, e siano quante volte vorrà. Ma sopra il tutto avertite che sia il giuramento per la vita di suo padre, e per quella cosa che più ama, che di questa maniera potremo star sicure, e lo sentiremo senza sospetto cantare e suonare, che per mia vita egl’è molto virtuoso. Andate presto, acciò che non dispensiamo questa notte in discorsi.

   Alzossi i panni la governatrice per esser più lieve nell’andare, ed in un subito si fece al torno, dove l’altre tutte la stavano aspettando; e quando loro mostrò la chiave che portava l’alzarono su le braccia, gridando tutte “viva, viva”; e molto più quando disse che il vecchio dormiva, né faceva di bisogno d’altra chiave, essendo l’unguento di sì mirabile virtù, che gliel’havrebbero sempre tolta, ogni volta che n’havessero havuto bisogno.

  -Adunque (disse una delle donzelle), aprasi [a] questo signore, che è molto che ci sta aspettando, ned ha altro da fare.

  - Più di quello che ti pensi (replicò la governatrice) ha da fare, perché deve giurare lo stesso che giurò la notte passata.

  - Egl’è tanto buono (disse una delle schiave) che non risguarderà a far giuramenti.

   Aperse in tanto la porta la donna di casa, e così fra mezza aperta e serrata chiamò Loaysa che il tutto havea sentito; il quale di colpo volle entrar dentro, ma, ponendoli la mano nel petto, la governatrice le disse.

  - Sappiate, signore, ch’in mia conscienza quante siamo dentro di questa porta siamo pulcelle come la madre ci partorì, eccetto che la signora nostra padrona; e benché io mi paia di quarant’anni (che né anco ho compiti li trenta, mancandoli due mesi), pure sono anch’io nel numero di quest’altre (gran peccato), e se a sorte io paio vecchia, li disgusti, li travagli, ed i spiaceri accrescono gl’anni più d’ogn’altra cosa. Ed essendo questo (come in verità lo è), non sarebbe di ragione che per sentir tre o quattro canzoni si mettessimo a pericolo di perder tanta virginità quanta è quella che qui dentro si rinchiude, perché fino a questa mora, che si chiama Guiomar, è pulcella; sì che, signor mio, havete da fare, prima ch’entrate nel nostro regno, un solenne giuramento di non fare più di quello che noi vorremo; e se a sorte li par troppo quanto le chiediamo, consideri ch’è molto più quello che per noi s’aventura; e se Vostra Signoria viene con buon’intenzione, non ha da far reflessione sopra il giurare, perché al buon pagatore non spiace il dar i pegni.

- Bene, e più che bene, ha detto la signora Marialonso (disse una delle donzelle), essendo molto prudente e considerata. In fine, se questo signore non vuol giurare, non entri per nissuna maniera. 

- Per la mia parte (disse Guiomar la mora, ch’era molto astuta e trincata), o ch’egli giura, o che non giura poco importa. Entri pure, che se quivi starà, il tutto manderà in oblio.  Ascoltò con molto sosiego Loaysa il lungo discorso della governatrice, e con gravità rispose:

- Per certo, signore mie, che giamai il mio intento fu, ned è, né sarà mai per l’avvenire, altro che darvi gusto e contento, in quanto con le mie forze sarà possibile, e di questa maniera non sarà strano il fare questo giuramento; ben è vero c’havrei voluto si fossero fidate della mia parola, che essendo data da una persona qual’ io sono, è lo stesso che fare un’obligazione; e voglio sappiano che sotto un ferraiuolo rotto anco si cuopre un huomo da bene. Ma perché tutte siano sicure del mio buon volere, voglio giurare come catholico e galanthuomo. Così io giuro per la vita di mio padre, di quella cosa che più amo, per tutte l’entrate ed uscite del Monte Libano, e per tutto quello che si rinchiude nella vera historia di Carlo Magno, con la morte del gigante Ferabrazzo, di non uscire, né trasgredire punto il giuramento fatto, né dal commandamento della minima di queste signore, sotto pena che, uscendo de’ precetti e delle leggi che da voi mi saranno imposte, quanto havrò fatto, o sarò per fare d’adesso fino all’hora, e d’all’hora fino adesso, tutto lo reputo niente e non fatto.

   Fin qui era pervenuto col suo dire Loaysa, quando una delle donzelle, che lo stava ascoltando, ad alta voce disse:

- Questi sì, che sono giuramenti da intenerire le pietre. Mi venghi il morbo se più comporto ch’egli giura, poiché con lo giurato fin hora potrebbe entrare sicuro nella stessa caverna di Cabra.

E prendendolo per li calzoni lo tirò dentro, correndoli tutte attorno a contemplarlo. Una andò ad avisare Leonora, che faceva la sentinella al vecchio, ed intendendo che montava il musico, le richiese se havea giurato, ed essa rispose che sì, e che con lo più strano giuramento del mondo.

  - Adunque siamo sicure (disse Leonora). Ò, come fui avisata a farglielo fare!

   In questo arrivò la caterva tutta delle donne, havendo in mezzo il musico, ed il moro con la schiava Guiomar, li facevano lume. Quando Loaysa vidde Leonora, fece atto d’inginocchiarsele a’ piedi, ma ella con cenni, tacendo, lo fece levare, osservando tutte il più strano silenzio del mondo, per paura di non essere sentite dal vecchio; della qual cosa accortosi il musico, disse che ben potevano parlare sicuramente, poiché l’unguento con che l’haveano unto, era di tal virtù, che fuori che’l torli la vita, faceva rimanere l’huomo come morto.

  - Così cred’io (disse Leonora), che se ciò non fosse, di già si sarebbe destato più di venti volte, tanto lo fanno di sonno leggiero le molte indisposizioni; però, doppo ch’io l’ho untato, sornacchia come un animale.

 - Adunque (disse la governatrice), andiamo in quella sala a fronte, che potremo sentir cantare e suonare questo signore, e rallegrarci un poco.

 - Andiamo (rispose Leonora). Però resti per guarda, se il vecchio si desta, Guiomar.

 - Perché sono negra, conviene ch’io resti  (disse la schiava). Iddio ve lo perdoni.

  Così dicendo, entrarono nella sala, dove tutte si assentarono, togliendo il musico in mezzo. E Marialonso, presa una candela in mano, cominciò a far con la vista anotomia delle qualità e bellezze di Loaysa. Una diceva:

 - Ahi che bel ciuffo! Com’è egli riccio!

 Un’altra:

 - Che denti bianchi, come fanno invidia al pinochio mondato!

 Ed un’altra:

 - Ò che occhi grandi e ben formati! Per vita mia che paiono di smeraldo.

   In somma, quella lodava la bocca, questa li piedi, e tutte insieme facevano una minuta anotomia delle sue bellezze; sola Leonora taceva, risguardandolo alcun tanto, di modo che venne a piacerli, parendole assai più bello del vecchio suo sdentato.

   Marialonso, presa la ghitarra in mano che teneva il moro, la diede a Loaysa, pregandolo che cantasse una certa canzonetta che all’hora in Siviglia era nova, e molto agradita;  il che fece lui, disfacendosi tutte le donne dietro al suono ed al ballo. E Marialonso, che a memoria sapeva la canzone, mentra Loaysa sonava, si mise a cantarla con molto più gusto che bontà di voce.

   Pervenute, poi, al fine del ballo, Guiomar la mora, ch’era restata sentinella, ferendo de’ piedi e delle mani, con voce mezza alta e mezza bassa, cominciò a gridare:

-È desto il signore, è desto! Fuggite signora, che viene!

   Chi mai ha veduto una schiera di colombi in un campo pascersi senza paura o timore alcuno, che poi scaricandosi un archibugio tutti sconcertati e confusi si fuggono, tal pensi che facessero le ballatrici alla inaspettata novella di Guiomar; e ciascuna pensando alla sua scusa, ed al propio interesse, fuggirono fin sotto ai tetti, e nei più remoti cantoni della casa, lasciando solo Loaysa, il quale, deposta la ghitarra ed il canto, non sapeva che farsi, essendo tutto ripieno di confusione. Leonora torcevasi le bianchissime mani, e percuotevasi il volto la governatrice. In fine, tutto era confusione, timore, e paura. Ma la signora Marialonso, come prudente e considerata, fece entrare Loaysa in una sua camera, rimanendo essa con la signora Leonora, non diffidandosi di ritrovare qualche scusa allo sgridare del vecchio; e poi, fatto questo, pian piano fattasi alla camera donde dormiva, lo sentì sornacchiare più forte che prima; e così, racquistando animo, corse a ragguagliar la signora, che ne fu molto lieta. E pensando di godere prima d’altro del musico, per non perdere quella buona congiuntura, disse a Leonora che lo aspettasse in sala, [in] tanto che andava a chiamare il maestro, e partendosi lo rittrovò tutto pensieroso e conturbato, dolendosi della falsità del unguento, e della credulità de’ suoi compagni, con la poca avertenza loro in non haver prima fatto lo esperimento che darglielo. Ma lo consolò tutto con dirli che il vecchio dormiva, e che non si dubitasse punto; di modo che egli si quietò e stette senza disturbo ad ascoltare molte amorose parole che li disse, dalle quali comprese la mala intenzione della governatrice, e determinò servirsi di lei per hamo a pescare la signora Leonora.

   Mentre questi due discorrevano nella maniera che habbiam detto, le donzelle e schiave, che per la paura erano fuggite, sentendo ogni cosa quieta, tornarono in sala, dove rittrovarono la loro signora, e dalla quale intesero il sonno del marito; e richiedendola del musico, lor disse dove era con la governatrice, e così tutte con la medesima prestezza e silenzio si fecero a quella camera ad ascoltare quanto passava fra li due, non mancando di venirvi Guiomar; il moro sì, che appena sentì il padrone esser desto, che abbracciatosi con la sua ghitarra si ritornò alla stalla, nascondendosi sotto la coperta del suo povero letto, tutto ripieno di timore e di paura, né con questo, però, lasciava di tentare le corde della ghitarra, tanta era l’affezzione che portava alla musica.

   Intesero le fanciulle le passioni amorose della vecchia, e ciascuna le disse dietro il nome della Pasqua: nissuna la chiamò vecchia che non fosse con l’epiteto ed agiuntivo di strega, di barbuta, di fascinatrice, ed altri, che per boni rispetti si tacciono. Però, quello che maggiormente incitava le risa, furno le parole della mora Guiomar, la quale, essendo portughese, e molto accorta e trincata, la vituperava con una grazia stravagante. In effetto, la conchiusione delli due fu ch’egli condescenderebbe alle sue voglie, quando che lei prima facesse opera che Leonora facesse le sue. La voglia straordinaria della governatrice fece promettere a Loaysa quanto chiedeva, però con patto ch’egli poi havesse a sodisfare ancora a lei.

   Lo lasciò dentro la camera, uscendo lei per andare dalla signora, ma come vidde la porta tutta circondata dalle fanciulle, le disse che si andasse ciascuna a dormire, poiché la paura improvisa che il vecchio fosse desto per quella notte le haveva levato il gusto di sentire il musico, ma che la notte seguente havrebbe meglio proveduto perché di lui havessero senza timore alcuno gustato un pezzo. Ben intesero esse che la vecchia per all’hora bramava di rimaner sola, ma non potero far di meno di non l’obbedire, essendo che ella comandava a tutte. Partironsi le donzelle ed essa andò da Leonora, in sala, a persuaderla che condescendesse alle voglie di Loaysa, con un discorso molto lungo ed efficace, che ben pareva che di molti giorni l’havesse mandato alla memoria. Le pose in considerazione la gentilezza, il valore, il garbo e le molte grazie di lui. Li dipinse li abbracciamenti di quanto più gusto sarebbero dell’amante giovane, che del marito vecchio; la continovazione del diletto, la segrettezza, con altre simili cose che il diavolo li pose nella lingua ripiena di colori rettorici, tanto dimostrativi che erano bastanti a movere non il tenero cuore di Leonora troppo incauto, e troppo semplice, ma quello d’ogni più alpestre fiera.

   Ò donne, nate al mondo non per altro che per rovina e danno delle buone e retirate da pensieri lascivi e vituperosi, scelte dal diavolo perché siate l’una all’altra ed esca e focile, perché cadiate nelle indegnità e ne’ vituperi, fidatevi pure di lasciare in cura le vostre figlie a queste maledette vecchie, che altro operando di quello che dimostrano, ve le faranno in breve putane (parlo delle triste che anco ve ne sono delle buone, benché rade)!

   Infine, tanto disse, tanto persuase Marialonso la misera Leonora, che ella si rese, si ingannò, e si perdé, lasciando insieme con la sua riputazione cadere a terra quella del misero vecchio Carizale, che all’hora dormiva il sonno della morte dell’honor suo. La prese per la mano, e quasi a forza la condusse alla sua camera, dove il giovane la stava aspettando, havendo Leonora gli occhi ripieni di lagrime; e fattala entrare, lor diede la benedizzione, tirando a sé la porta, di modo che lasciò ambidue serrati, ed ella si pose a dormire in sala, o per meglio dire ad aspettare di riscuotere il convenuto prezzo della sua ruffianeria. Però, come che le passate notti non si fosse riposata, fra poco si addormentò.  Doveasi all’hora dire a Carizale, che li valevano tante sue diligenze, gelosie, avertimenti, le alte mura della casa? Non esser mai entrato in essa né pur ombra di maschio? Il torno? Le grosse mura, le finestre senza luce, l’haverle serrate? La contradotte che a Leonora havea fatto? Li regalamenti che le faceva? Il buon trattamento delle donzelle, e schiave? Ed il non mancare a tutto quello che potevano desiderare?  Se egli desto fosse stato, altro rispondere non havrebbe potuto che, stringendosi negli homeri, dire: “L’astuzia di un giovane malizioso e spensierato, la malizia di una falsa governatrice, e la simplicità di una fanciulla pregata e persuasa, hanno rotti e gettati a terra tutti li fondamenti dell’honor mio”. Questo, e non altro poteva, rispondere il vecchio Carizale, altretanto misero quanto ignorante nel prender moglie giovane.   Difenda Iddio ciascuno da questi nemici, da’ quali non ci può difendere lo scudo della prudenza, né la spada della ritiratezza. Però, con tutto questo, il valore di Leonora fu tale, che a tempo che più le conveniva, lo dimostrò contro le forze villane dell’astuto suo ingannatore, poiché non furono bastanti a vincerla, di modo che si affaticò invano, ed ella rimase vincitrice, lui deluso, ed ella sodisfatta.   Volle il Cielo, contro ogni pensiero, che la forza dell’unguento fosse vana, di modo che Carizale si destasse, e tentando tutto il letto, come haveva costume, né ritrovando in esso la sua amata sposa, con la maggior leggerezza che li suoi molt’anni non richiedevano, saltò dal letto, né la ritrovando nella camera, e vedendo anco aperta la porta, e la chiave levata da’ materassi, fu per perdere il giudizio. Pure, raffrenandosi alquanto, uscì fuori sopra la loggia, ed andando pian piano, per non essere sentito, arrivò alla sala, dove vidde la governatrice dormire sola senza Leonora, andò alla camera di lei, ed aperta la porta con molta leggerezza, vidde quello che mai havrebbe pensato di vedere, né che mai havrebbe voluto vedere, e che per bene havrebbe impiegati gl’occhi rimanendone privo, per non vedere tanta sceleratezza. Vidde Leonora in braccio a Loaysa, dormendo tanto profondamente, come che l’unguento in loro havesse operato, e non nel geloso marito.

   Rimase a questa vista Carizale senza polso, la voce se li chiuse nella gola, le braccia se li infiacchirono, restando come una statua di marmo freddo. Ed avegnaché la colera facesse il suo naturale ufficio, ravvivando in lui li quasi morti spiriti, pure puotè tanto il dolore, che non lo lasciò respirare; con questo, però, si sarebbe vendicato di tanto delitto, se havuto havesse l’animo per farlo. Determinò ritornarsi nella sua camera, e prendere un pugnale, e far di modo che le macchie dell’honor suo rimanessero lavate con il sangue delli due adulteri, anzi con quello di tutta la gente di casa. Con questa determinazione honorata e necessaria, con lo stesso silenzio con il quale era venuto, ritornò adietro, dove tanto li strinse il dolore il cuore, che senza poter far altro, si lasciò cadere svenuto sopra il letto.

  Si fece intanto giorno, essendo li due adulteri stretti dalle catene e da’ nodi delle braccia. Destossi Marialonso, e pensando di accorrere per haver da Loaysa quanto desiava, s’avide che di già s’era fatto molto del giorno, così pensò di aspettare fino alla seguente notte; ed entrata nella camera, ritrovò li due anco addormentati, né volendo che loro occorresse qualche inconveniente, destò Leonora, la quale, quando vidde esser tanto tardi, subito vestitasi, cominciò a maledire la sua spensieratezza e la dapocaggine della governatrice. Andarono ambedue alla camera del vecchio, pregando fra’ denti il Cielo ch’ancora lo facesse dormire; e vedendolo di quella maniera steso sopra il letto, pensarono che anco l’unguento facesse operazione. Però Leonora lo prese da una parte, movendolo per destarlo, acciò non fosse di bisogno adoperare l’aceto. Ritornò in sé Carizale dallo svenimento, e dando un profondo sospiro, con voce lamentevole e languida disse:

  - Sventurato ch’io sono, a qual termine mi ha condotto la trista mia fortuna!

   Non intese Leonora le parole del marito, ma stupida, sentendolo di quella maniera ragionare, e che il sonno tanto non li durava come le haveano detto, appressato il suo volto a quello di lui, abbracciandolo strettamente, li disse:

  - Che havete, signor mio, che per quanto parmi vi lamentate?

   Sentì la voce della dolce sua nemica il misero vecchio, ed aprendo con gran fatica gl’occhi, li pose adosso lei tanto fissamente, che pareva fuori di se stesso, senza pur mover le ciglia, e così la stette mirando buona pezza, ed infine li disse:

 - Fatemi un piacere, signora, mandate adesso adesso a chiamare vostro padre e vostra madre, perché sentendomi una strana passione al cuore, la quale penso sia per levarmi la vita, vorrei prima vederli di morire.

   Senza dubbio alcuno credé Leonora che la forza dell’unguento, e non quello c’havea veduto, l’havesse posto in quel termine, e però rispose che subito havrebbe mandato ad effetto li suoi commandamenti. Chiamò il moro e gl’impose che subito andasse da suo padre, ordinandoli quanto havea da dire; doppo ritornò ad abbracciare il vecchio, facendoli le maggiori carezze del mondo, richiedendoli che si sentiva, con tanta tenerezza ed amore, che ben pareva ch’altro non amasse più al mondo di lui. Risguardavala Carizale come fuori di se stesso, essendoli ogni carezza e parola una lanciata che li passava l’anima.  La governatrice di già havea fatto noto a Loaysa ed agl’altri di casa l’infermità del padrone, imaginandosi che fosse di momento, poiché in uscendo il moro a chiamare li parenti di Leonora erasi smenticato di far chiudere la porta, e molto più li dava di admirazione l’haver così in un subito mandato a dimandare li suoceri, stando che mai erano entrati in quella casa, da che li consegnarono la loro figlia in moglie. In fine, tutti tacevano osservando il fine, non sapendo mai dar nel segno dell’infermità del loro signore, il quale di tanto in tanto così profondamente e dolorosamente sospirava, che pareva che l’anima ad ogni sospiro li uscisse dal petto. Piangeva Leonora per vederlo di quella maniera, ed egli rideva con un certo riso, come che fosse fuori di se stesso, considerando quanto fossero false le lagrime della moglie.

   Ed in questo arrivarono li suoceri, li quali, vedendo la porta di strada aperta, e quella della corte, con la casa tutta sepolta nel silenzio, rimasero confusi ed alquanto timorosi. Andarono alla camera del genero loro, dove lo ritrovarono con gl’occhi fissi adosso a Leonora, tenendola per le mani, e spargendo ambidue abbondantissime lagrime. Lei, come quella che le vedeva spargere a suo marito, ed egli come quello che vedeva quanto fossero quelle della moglie finte e mentite. Quando il vecchio lor vide, disse:

 - Signori si accommodino, e tutti gl’altri eschino di questa camera, restando con noi solamente la signora Marialonso.

Il che fatto, rasciugandosi Carizale gl’occhi, con voce alquanto riposata disse di questa maniera:

- Ben sicuro io sono, che non fa di mestieri ch’io adduca testimoni, perché mi sia creduta una verità che voglio dire. Ben dovrete ricordarvi (che così facilmente non vi sarà uscito della memoria), con quanto amore, con quanta buona volontà già è un anno, un mese, cinque giorni, e nove hore mi concedeste la vostra amata figlia per mia legitima sposa. Ancor sapete con quanta liberalità la dottai, poiché fu tale che tre altre fanciulle con quella dote si sarebbero potute maritare con opinione di ricche. Ancora come io usai ogni diligenza per vestirla, dandoli tutti quei gusti che mai ella sapesse addimandarmi, e che io mi imaginai darle contento. Havete anco veduto con quanta diligenza, dubitando del male per il quale ho da morire, rispetto a’ miei molt’anni, guardai questa gioia che io scelsi per mia, e che voi mi concedeste. Alzai le mura di questa casa, serrai le finestre, radoppiai le serrature della porta, li feci un torno come a monasterio, bandii da questa casa tutte quelle cose che havessero nome o forma di maschio, le diedi serve e schiave che la servissero e le tenessero compagnia, né mai le negai, o ad esse, o ad ella, quanto seppero addimandarmi. La feci mia uguale, le communicai li maggiori  miei segreti, e le diedi tutto il mio. Queste cose tutte, se bene le havesse considerate, erano bastanti a fare ch’io sicuro ed affatto lontano da pensieri gelosi vivessi. Ma come che non si può prevenire con diligenza humana il castigo che è destinato in Cielo a quelli che non vogliono del tutto in lui fondare li loro desiri e loro speranze, per tanto non è maraviglia se del tutto io sono restato defraudato. E che io stesso sia stato quello che mi ha fabricato il veleno che a poco a poco mi va levando la vita. Però, veggendo quanto siate confusi dal mio parlare, voglio concludervi questo discorso con una sola parola. Dico, adunque, signori, che tutto quello che ho detto e fatto in altro non ha risultato, in fine, che che io habbia questa mattina a buon’hora veduta questa nata nel mondo per mia distruzzione, ed insieme dell’honor mio, in braccio di un giovane nella camera di questa pestifera governatrice.

  Mentre diceva queste parole, Leonora lasciò cadersi svenuta nelle ginocchia del marito. Si perdé di colore Marialonso, ed al padre ed alla madre della simplice moglie si fece un nodo alla gola che lor non lasciava proferire parola. Però, seguendo il suo ragionamento, Carizale disse:

  - La vendetta che di questo voglio prendere non ha da essere delle ordinarie, perché come io diedi nell’estremo nel fare le mie cose, così anco voglio che sia degna di grande ed estrema considerazione questa vendetta, havendola da prendere di me stesso, come quello che ha havuto più colpa in questo delitto, dovendo considerare quanto male potevano stare insieme li quindici anni di lei con li ottanta che ho sopra di me. Io fui quello che qual Bombice mi fabricai la casa onde devo morire. Te non incolpo io, ò fanciulla mal consigliata, -e dicendo questo s’inchinò e baciò il volto alla svenuta Leonora-, te non incolpo dico, perché le persuasioni di vecchia astuta, e le preghiere di giovane innamorato, facilmente vincono e trionfano del poco ingegno che ne’ teneri anni si rinchiude. Ma perché il mondo veda della sorte che ti amai, e che all’estremo di mia vita ancor ti amo, accioché resti al mondo, se non per essempio di bontà, almeno per essempio della simplicità di questo mio fatto, voglio c’hor hora si chiami un notaro, intendendo di rifar il testamento, e radoppiar la dote a Leonora, dandole libertà e possesso dopo i miei giorni di prendere per marito quel giovane, il quale mai offesero queste canizie; e di dispensar queste mie ricchezze, venendo ella di questo modo a vedere che, sì come in vita altro non bramai che darle gusto, così in morte faccio lo stesso, volendo ch’ella l’habbia con quello che tanto deve amare. L’avanzo delle mie entrate dispenserò in altr’opere pie, ed a voi altri, signori, lascierò tanto che potiate vivere honoratamente l’avanzo di vita vostra. Ma perché la passione mi va stringendo il cuore, fate che venghi presto il notaro, poiché sento mancarmi la vita.

   Questo detto, li venne così terribile svenimento che si lasciò come morto cadere, appressando il suo volto a quello di Leonora (misero ed infelice spettacolo per li suoceri, vedendo la figlia ed il genero di quella maniera). Non volle la governatrice aspettare le riprensioni, ma uscitasene andò subito da Loaysa, e  lo ragguagliò di quanto passava, consigliandolo che si andasse subito, che ella col mezzo del moro l’havrebbe d’ogni cosa avisato; e poteva sicuramente farlo, essendo ogni cosa aperta. Questo sentendo Loaysa, preso il consiglio, andò a vestirsi de’ suoi panni da povero, ed uscì a dar conto de’ suoi non più intesi amori a’ compagni.

   Il padre di Leonora, vedendo il genero di quella maniera e la figlia, sapendo la volontà di lui essere che si chiamasse il notaro, e mandò per lui, venendo in tempo che di già erano ritornati ambidue in loro essere. Fece Carizale il testamento nella forma c’haveva detto, non scoprendo mai l’errore di Leonora, solo dicendo che, morendo lui, la pregava prendere per marito quel giovane che già detto le havea. Quando Leonora sentì questo, inginocchiata a’ piedi del marito, li disse:

 - Vivete pure, signore, molt’anni, che posto caso che non siate obligato credermi alcuna cosa di quanto sono per dirvi, pure sappiate ch’io non vi ho offeso se non col pensiero.

E cominciando a discolparsi, ed a raccontare alla distesa tutto il caso, ritornò a svenire.

   Abbracciolla così svenuta lo sventurato vecchio, e lo stesso fecero suo padre e sua madre. Piansero tutti così infelice caso, e fino lo stesso notaro, che faceva il testamento, nel quale lasciò il vecchio alle donzelle ed alle schiave da mangiare e bere in vita, assignandole certa parte di entrata; ed al moro, ed alla governatrice, come stromenti delle sue disgrazie, non fece dar altro che il solo salario. Infine, il dolore di modo li strinse il cuore, che il settimo giorno lo portarono alla sepoltura.

   Rimase Leonora vedova lagrimosa e ricca, e Loaysa, aspettando ch’ella dasse effetto a quanto havea ordinato il vecchio nel testamento (che il tutto havea inteso), la vidde contro ogni suo pensiero farsi monaca in uno de’ più stretti monasteri della città; così egli, deluso e schernito, si passò all’Indie. Li genitori di Leonora, dolendosi per la morte inaspettata del genero, si consolarono con le ricchezze loro lasciate; le schiave ed il moro per la libertà; solo la governatrice rimase povera e defraudata de’ suoi pensieri. Questo fu il fine dell’infelice vecchio, essempio e specchio agl’altri, dimostrando quanto poco si habbia a fidare di chiave, di torno, di mura, quando che sempre resta libera la volontà, e quando che si debba fuggire lo consignare fanciulle di età tenera a queste vecchie con le tonache nere, e con veli bianchi sopra la fronte, che, fingendo santità, sono diavoli. La cagione perché Leonora non finisse il discolparsi con il geloso marito, dimostrandoli quanto fosse netta ed innocente in quel successo, non so. Diremo ch’egli, affrettando il morire, non volle aspettare la sua discolpa, havendola ammessa per buona e fedele.



1  Antica variante grafica di “impronta”.